Classificare lo stress usando EEG e musica

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 09 marzo 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Lo stress, così come lo si intende in neurofisiologia, psichiatria e psicologia, è parte integrante della nostra vita e, con uno spettro di intensità che va dal più lieve stimolo emozionale ai disturbi psicopatologici, causa reazioni nel nostro organismo che sono oggetto di intensi studi. Sebbene la ricerca abbia prodotto una mole considerevole di dati e concetti da un secolo a questa parte, non si dispone ancora di una metodologia in grado di consentire una misura affidabile e accurata dello stress, e tale da consentire di stimare il grado di carico individuale. Un tale rilievo, non solo potrebbe fornire un contributo al miglioramento della diagnostica, ma potrebbe fornire anche informazioni preziose per interventi e programmi di prevenzione.

Quando l’attivazione dei sistemi dello stress è cronica e intensa, si determina un fardello che condiziona la fisiologia del sistema nervoso e, come ha sempre messo in rilievo la nostra scuola neuroscientifica, di tutto l’organismo nel suo complesso. I metodi e le tecniche per ridurre l’eccessiva e automaticamente reiterata risposta dei sistemi dell’amigdala e del locus coeruleus, con l’eccessiva attività dell’asse adrenomidollare e ACTH-cortisolo, sono numerosi e concepiti in relazione ai differenti quadri clinici di stress e alle differenti situazioni psicologiche, con la frequente necessità di un adattamento individuale. Generalmente si procede cercando di determinare un allontanamento dalle fonti di stress, fornire un’esperienza presente positiva e rasserenante, e agire con varie tecniche per far mutare l’assetto funzionale dell’organismo (esercizi di respirazione con rilassamento, metodi derivati dal training autogeno, tecniche di meditazione, approcci neuromotori, ecc.) procedendo per gradi, perché un netto contrasto produce a sua volta un aumentato rilascio di ormoni e neuromediatori centrali di quello stato che deriva dalla reazione elementare a corto-circuito, innescata negli animali da minacce per la vita o l’integrità dell’organismo.

Quando lo stato dell’organismo non configura una condizione particolarmente grave, un metodo che si è rivelato efficace per ridurre la tensione interiore consiste nell’ascolto di musica gradita.

Asif e colleghi hanno esaminato gli effetti di brani musicali in Inglese e in lingua Urdu sui livelli di stress nell’uomo, usando segnali cerebrali. Lo studio ha prodotto dati di notevole interesse.

(Asif A. et al., Human stress classification using EEG signals in response to music tracks. Computers in Biology and Medicine 107: 182-196, 2019).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Computer Engineering, University of Engineering and Technology, Taxila (Pakistan); Department of Software Engineering and Technology, Taxila (Pakistan).

Prima di esporre in breve i contenuti dello studio di Asif e colleghi, si propone una ricostruzione delle tappe fondamentali della ricerca sulle basi neurofunzionali della risposta allo stress, tratta da un nostro recente articolo:

Il fisiologo americano Walter Cannon introdusse per la prima volta il concetto di stress biologico in una trattazione scientifica nella seconda decade del Novecento, per indicare l’azione di fattori, eventi o condizioni in grado di superare le capacità dei meccanismi omeostatici, rompendo l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per conservare la temperatura corporea e i livelli ematici di glucosio entro l’intervallo di valori fisiologici[1]. Cannon studiò la risposta dell’organismo allo stress, quale reazione integrata ed aspecifica in condizioni di emergenza, e la identificò con il processo alla base del comportamento animale istintivo noto come fight or flight reaction[2], descrivendo la redistribuzione del flusso ematico che avviene in questo stato: la riduzione nei distretti cutaneo e splancnico, contrapposta all’aumento della portata a cuore, cervello, organi di senso, polmoni e grandi muscoli, a supporto dell’assetto fisiologico che consente all’animale di reagire efficacemente ad una minaccia per la vita. Perrella nota, in proposito, come la comparsa nella filogenesi del sistema nervoso “abbia consentito a singoli individui di una specie di rispondere individualmente ed immediatamente ad una minaccia per l’incolumità, scegliendo se eliminare l’origine individuata con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza, fuggendo”[3].

Il fisiologo americano “rimuoveva la corteccia cerebrale nel gatto e ne studiava le conseguenze in termini di fisiologia sistemica e di comportamento dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento delle reazioni di paura a situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente nuove, accompagnate da attivazione adrenergica, con aumento della pressione sanguigna, sudorazione, piloerezione ed aumentata secrezione di adrenalina surrenalica. Definì questa reazione “sham rage” – di solito tradotta nei testi di fisiologia italiani con “rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto definirla “rabbia artificiale” in quanto conseguenza di asportazione della corteccia cerebrale – e propose l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra il Mesencefalo fossero implicate nella genesi delle emozioni; in particolare indicò l’Ipotalamo, il Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[4].

“Nel corso dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe anche modo di testare l’effetto di stimoli psichici in grado di evocare risposte affettivo-emotive nell’animale. I risultati di questa ricerca gli consentirono di dimostrare, per primo, che diverse condizioni agenti direttamente sulla psiche dell’animale, senza il condizionamento del dolore fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano un’identica reazione simpato-adreno-midollare. Questa osservazione cruciale lo condusse alla formulazione di un principio, purtroppo spesso trascurato nei decenni successivi[5]: “al pari di una omeostasi organica esiste una omeostasi psichica la cui perturbazione provoca le stesse modificazioni periferiche che si osservano quando l’organismo viene sottoposto a stress di natura fisica”[6].

Dieci anni dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez ipotizza un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con punto di partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del lobo limbico, ossia il Circuito di Papez[7]. Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci appare ingenua e infondata. In quello stesso periodo, Kluver e Bucy stabilirono un rapporto tra memoria ed emozioni asportando nelle scimmie parti estese del lobo temporale. Queste scimmie sembravano prive di paura e risposte emozionali, ma non riconoscevano più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[8].

Nel decennio successivo, McLean, sintetizzando gli studi di Papez e quelli di Kluver e Bucy, denominò cervello viscerale il rinencefalo dei mammiferi inferiori; ma, soprattutto, introdusse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione sistematica del cervello emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni la definizione di lobo limbico[9].

Il medico ungherese Hans Selye, considerato dai ricercatori del suo tempo il massimo esperto di effetti dello stress sull’organismo, pubblicò i primi risultati delle sue ricerche nel 1936 sulla rivista Nature: definì la risposta dell’intero organismo a fattori o condizioni stressanti sindrome generale di adattamento, sottolineando la partecipazione globale ad un assetto fisiologico dal significato di difesa efficace ad adattare l’animale a circostanze minacciose, estreme o traumatiche. In questa “sindrome” Selye distingue una iniziale reazione di allarme da una fase di resistenza successiva. Il contributo più importante del ricercatore ungherese consiste nella scoperta dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la produzione di glucocorticoidi (cortisolo nella specie umana) per azione dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo. Comprendendo le potenzialità patogene dell’attivazione protratta di questa via neuroendocrina, inizialmente attivata a fini adattativi, Selye considerò “malattie dell’adattamento” la maggior parte dei disturbi psichici e psicosomatici.

È opportuno rilevare che “Selye conferisce al termine stress un nuovo valore semantico, definendolo come la somma di tutte le modificazioni indotte da ogni impegno fisico o psicologico in grado di provocare la sindrome generale di adattamento[10]. Quindi, mentre Cannon identificava lo stress con gli agenti stressanti (stressors), per Selye lo stress era costituito dalla risposta che questi inducono nell’organismo e, in ultima analisi, dalla stessa sindrome di adattamento. In estrema sintesi, si può dire che a Cannon dobbiamo la scoperta dell’attivazione del sistema simpato-adreno-midollare e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene[11].

Tutti gli studi successivi hanno preso le mosse dalla base fisiologica individuata da Cannon e Selye.

La concezione attuale è stata così esposta in sintesi: “Oggi definiamo lo stress come uno stato di disarmonia o di alterata omeostasi che può essere provocato da vari fattori di natura fisica e/o psichica (agenti stressanti o stressors) e al quale l’organismo reagisce specificamente attivando una serie di meccanismi fisiologici di natura neuroendocrina (sistema dello stress) che innescano e/o modulano una serie di funzioni fisiche e comportamentali (risposte adattative), aventi lo scopo di adattare l’organismo alla nuova condizione e di ripristinare l’omeostasi iniziale”[12].

Fra i meccanismi di sistema ritenuti responsabili della patogenesi dei sintomi del PTSD, quale esito patologico di stati protratti di alterata omeostasi, vi è quello che implica l’intervento del locus coeruleus. In sintesi: eventi stressanti o minacciosi, riconosciuti ed elaborati dalla corteccia cerebrale, raggiungono l’amigdala, che può essere attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati inconsciamente; l’amigdala rilascia il CRH che attiva la produzione simpatico-midollare di adrenalina e stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando l’organismo alla fuga o all’attacco. Se lo stress perdura o è molto intenso, il cortisolo attiva il locus coeruleus che, mediante la noradrenalina, stimola l’amigdala a produrre CRH, innescando il circolo vizioso ritenuto responsabile della patogenesi[13].

Dopo aver ripercorso le tappe salienti della ricerca sulla fisiologia della risposta allo stress, è interessante considerare, sia pure in estrema sintesi, l’evoluzione della concezione in medicina e in psichiatria della patologia da stress.

Nel 1871, durante la guerra civile americana, Da Costa descrisse in soldati esposti allo stress del combattimento una sindrome caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Il medico americano studiò le manifestazioni cardiovascolari, consistenti nell’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, rendendosi conto dell’origine non cardiologica di questi segni[14]. Da Costa definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore irritabile del soldato) e lo considerò parte di una sindrome di attivazione dell’intero organismo, alla cui origine riconobbe lo stato psichico determinato da paura e tensione estreme[15]. Si tratta della prima formulazione nosografica di un disturbo da stress, denominato con l’eponimo Da Costa’s Syndrome[16].

Kraepelin, pioniere della nosografia psichiatrica, descrisse una sindrome da trauma psichico con il nome di schreckneurose, reso in inglese con fright neurosis, letteralmente “nevrosi da spavento”[17]. Freud, la cui elaborazione teorica degli effetti delle esperienze traumatiche esulerebbe dai limiti di questa sintesi, consultato nel 1915 circa il crescente numero di vittime della tensione e dell’angoscia causate dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, propose la diagnosi di Kriegneurose, ossia “nevrosi di guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero sintomi psichici causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come disturbi della memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del proprio nome sul campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi appena accaduti, fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori intrattabili ed ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a quelli dell’isteria di conversione della nosografia dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità temporanee[18]. In assenza di fattori eziologici cerebrali riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni cliniche, i fautori di una visione neurologistica conclusero che il cervello subisse danni concussivi dalle esplosioni ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi. Per questo tali sindromi furono denominate Shell Shock o Shock da bombardamento (to shell = bombardare). Nello stesso periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme o eventi traumatici fossero in grado di determinare una scissione della coscienza tale che la vita mentale potesse avere due processi paralleli operanti fianco a fianco, ciascuno dei quali poteva essere o meno consapevole dell’altro. Lo psichiatra francese osservò pazienti che presentavano sintomi quali vedere “come se fossero in un tunnel” o senza colore, che avevano pause psichiche o si sentivano come se fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che oggi descriveremmo come dissociazione da stress[19]. Ricordiamo che Janet fornì la prima teoria della dissociazione, secondo una patogenesi perfettamente coerente con le più avanzate conoscenze di neurofisiologia dell’epoca.

Lo studio delle nevrosi di guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta alle amnesie sul campo di battaglia, ma analizza anche il perdurare dei sintomi, spesso considerato un effetto di affaticamento del sistema nervoso. Infatti, Mott ed altri introducono la categoria nosografica della Combat Fatigue o affaticamento da combattimento[20].

Kardiner e Spiegel (1930-38) interpretano i disturbi presentati a distanza di tempo dai veterani della I Guerra Mondiale come il “perdurare della rottura delle funzioni egoiche[21] espresse in una psiconevrosi, negando di fatto l’esistenza di patologia cronica da stress. Sargent e Slater (1941) studiano le sindromi amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia psicosomatica da stress. Nel 1945 Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto la definizione di Combat Neuroses, pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici: Men Under Stress[22]. La focalizzazione sull’eccesso di adrenalina all’origine di segni e sintomi porta gli autori a suggerire nei casi più gravi la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenaliche.

La prima descrizione esaustiva di sindrome da stress cronico si attribuisce ad Eitinger che, in uno studio condotto dal 1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti, definisce la Concentration Camp Syndrome[23].

Le difficoltà nello sviluppo di una nosografia di riferimento per la diagnosi dei disturbi da stress in assenza di precisi elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel Manuale Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM) che, nella prima edizione del 1952, includeva la gross stress reaction – probabilmente sotto l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre nella seconda edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le problematiche legate alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di attualità con lo studio dei reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle response, consistente nel sussultare per comuni suoni e rumori ambientali, e la attribuì agli elevati tassi di noradrenalina presenti nei reduci afflitti da una sintomatologia cronica. In questo periodo sono state elaborate le principali teorie dello stress: la residual stress theory, la stress sensitization theory e la stress inoculation theory.

Nel suo influente lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che lo stress della guerra fosse in grado di determinare psicopatologia da stress virtualmente in ogni persona esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[24]. In questa temperie psicopatologica, nel 1980 si introdusse nel DSM III il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder) quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.

Nei primi anni la diagnosi era posta raramente, anche per la definizione di trauma inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là del normale spettro dell’esperienza umana”. Nelle versioni successive si corregge questo limite: “Evento con minaccia per la vita od altro (evento) significativo accompagnato da estrema paura, orrore o sconforto”[25].

Una parte considerevole delle conoscenze cliniche ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi possiamo disporre si deve agli studi di Richard Mollica, tra i fondatori nel 1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, e dei gruppi di psichiatri che fanno capo alla sua scuola. Fondamentale il contributo derivato dallo studio nel più grande campo di rifugiati cambogiani nel 1988.

Nel 1994 fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute Stress Disorder (ASD) che, a differenza del PTSD, prevede una durata della sindrome inferiore a un mese.

Il riferimento nosografico ha facilitato lo studio degli effetti sull’encefalo dello stato di attivazione da stress di lungo periodo nella nostra specie, con il lavoro di Bremner e colleghi che ha inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante risonanza magnetica nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano confrontò un gruppo di veterani affetti da PTSD con un gruppo di controllo equivalente, rilevando che le persone affette dal disturbo presentavano in media un volume dell’ippocampo di destra inferiore dell’8%, con un deficit di memoria direttamente proporzionale alla perdita di tessuto nervoso ippocampale. Lo studio, condotto nel 1995, documentò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano[26].

Riprendiamo, ora, la recensione dello studio condotto da Asif e colleghi.

L’analisi dei correlati EEG durante l’ascolto di brani musicali è stata realizzata su 27 volontari, 14 di sesso maschile e 13 di sesso femminile, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, di madre lingua Urdu.

L’Urdu è una lingua indoeuropea del gruppo delle indoiraniche (indoarie), ufficiale in Pakistan, in molte regioni dell’India e nelle Figi, dove è nota come indostano. È parlata da 61 milioni di nativi e da numerose altre popolazioni, per un totale stimato intorno ai 104 milioni di parlanti. La storia di questo idioma sembra si sia svolta nell’Asia meridionale, tra il 1200 e il 1800, al tempo del Sultanato di Delhi e dell’Impero Mogul, e si sia caratterizzata per le influenze persiane, turche e arabe. Il nome della lingua “Urdu” viene da una parola di origine turcica che designava l’accampamento imperiale e, per metonimia, le schiere che da lì provenivano: la parola italiana orda deriva da questo termine. La lingua Urdu, da un punto di vista fonetico e grammaticale, è pressoché indistinguibile dall’Hindi, ma rimane distinta nella scrittura perché utilizza segni grafici arabo-persiani con l’aggiunta di qualche grafema originale che rappresenta suoni di antica tradizione indiana. Anche il lessico la distingue dall’Hindi, che ha un 80% di parole derivate dal Sanscrito.

I segnali indicativi di stress sono stati rilevati mediante registrazione dell’EEG – durante l’ascolto dei brani musicali – usando un MUSE headband a quattro canali. Ai partecipanti è stato chiesto di annotare la valutazione soggettiva del proprio livello di stress, impiegando il collaudato state and trait anxiety questionnaire.

I brani musicali in Inglese sono stati ripartiti in quattro categorie per genere: 1) rock; 2) metal; 3) electronic; 4) rap. I brani musicali in lingua Urdu sono stati ripartiti in cinque categorie: 1) famosi; 2) patriottici; 3) melodici; 4) qawali; 5) ghazal. Sono stati estratti cinque gruppi di elementi dai segnali pre-elaborati dell’EEG a quattro canali e cinque bande: power assoluto, power relativo, coerenza, ritardo di fase e asimmetria di ampiezza; tali elementi sono stati impiegati dal classificatore per la classificazione dello stress.

Per classificare in due o tre classi il livello di stress del soggetto sono stati adoperati 4 algoritmi di classificazione:

1)      algoritmo di ottimizzazione minimale sequenziale;

2)      algoritmo del gradiente stocastico discreto;

3)      algoritmo di regressione logistica (LR);

4)      algoritmo del perceptron multistrato.

I ricercatori hanno rilevato che l’algoritmo LR è il più efficace nell’identificare lo stress, con una precisione del 98,76% (classificazione in due livelli) e del 95,06% (classificazione in tre livelli).

Per comprendere le differenze nello stress legate al sesso, alla lingua e al genere musicale ascoltato si è fatto ricorso a un t-test e all’analisi della varianza one-way.

I risultati mostrano con evidenza che i brani musicali in Inglese si sono rivelati più efficaci nel ridurre lo stress rispetto a tutti quelli in lingua Urdu. Una reale differenza legata al genere musicale, per entrambe le lingue, non è stata rilevata. Invece, un’importante differenza è emersa fra i due sessi: le manifestazioni di stress per effetto della musica nelle donne del campione erano molto più marcate di quelle dei coetanei maschi. Tale dato suggerisce una maggiore sensibilità, e dunque vulnerabilità, allo stress da percezione acustica nelle donne.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-09 marzo 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] I cenni storici e le nozioni sulla fisiologia dello stress esposti da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.

[2] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga” (lett.: lotta o fuga).

[3] G. Perrella, op. cit., p. 4.

[4] G. Perrella, op. cit., p. 5. Cfr. W. B. Cannon, The James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal and an alternative theory. American Journal of Psychology 39, 106-124, 1927.

[5] Mai completamente assimilato nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere soggettivo (illness) che accompagna le malattie psicogene a quello della patologia ad etiologia organica.

[6] G. Perrella, op. cit., p. 6. La citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.

[7] J. W. Papez, A proposed mechanism of emotion. American Medical Association Archives of Neurology and Psychiatry 38,725-743, 1937.

[8] H. Kluver & P. C. Bucy, “Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy in rhesus monkeys. American Journal of Psychiatry 119, 352-353, 1937. Cit. in G. Perrella, op. cit., p. 8.

[9] P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent developments bearing on the Papez Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.

[10] Cfr. A. Calogero e M. C. Serra, op. cit., p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the diseases adaptation. Journal of Clinical Endocrinology 6, 117-196, 1946.

[11] G. Perrella, op. cit., p. 11.

[12] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si descrivono una risposta centrale ed una periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento della vigilanza nello stato di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e proprio, con accentuazione dell’attenzione scopica, perlustrativa ed esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva con eretismo estesico; inoltre, si ha un miglioramento della memoria impressiva. La risposta periferica include le modificazioni fisiologiche neurovegetative che interessano i sistemi endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio, gastroenterico, tegumentale, con le azioni visceroeffettrici ghiandolari, incluse quelle interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione adrenergica).

[13] Ricordato anche nella nostra rubrica “Alfabeta” e citato in numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus rivisitato in “Note e Notizie” del 9 aprile 2016.

[14] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp. 13-14.

[15] J. M. Da Costa, On irritable heart: A clinical study of a form of functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.

[16] J. D. Bremner, Does Stress Damage The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.

[17] G. Perrella, op. cit., p.14.

[18] G. Perrella, op. cit., p.15.

[19] G. Perrella, op. cit., p.17.

[20] F. W. Mott, War Neuroses and Shell Shock. Oxford University Press, London 1919.

[21] Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria Clinica, p. 704, Idelson, Napoli 1979.

[22] Grinkel R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston, Philadelphia 1945.

[23] G. Perrella, op. cit., p.19.

[24] Charles Figley cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.

[25] G. Perrella, op. cit., p.28.

[26] Note e Notizie 15-9-18 Disfunzioni di circuito nel disturbo post-traumatico da stress.