Classificare lo stress usando EEG e
musica
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 09 marzo
2019.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Lo stress, così come lo si intende in neurofisiologia, psichiatria e
psicologia, è parte integrante della nostra vita e, con uno spettro di
intensità che va dal più lieve stimolo emozionale ai disturbi psicopatologici,
causa reazioni nel nostro organismo che sono oggetto di intensi studi. Sebbene
la ricerca abbia prodotto una mole considerevole di dati e concetti da un secolo
a questa parte, non si dispone ancora di una metodologia in grado di consentire
una misura affidabile e accurata dello stress,
e tale da consentire di stimare il grado di carico individuale. Un tale
rilievo, non solo potrebbe fornire un contributo al miglioramento della
diagnostica, ma potrebbe fornire anche informazioni preziose per interventi e
programmi di prevenzione.
Quando l’attivazione dei sistemi
dello stress è cronica e intensa, si
determina un fardello che condiziona la fisiologia del sistema nervoso e, come
ha sempre messo in rilievo la nostra scuola neuroscientifica, di tutto
l’organismo nel suo complesso. I metodi e le tecniche per ridurre l’eccessiva e
automaticamente reiterata risposta dei sistemi dell’amigdala e del locus coeruleus,
con l’eccessiva attività dell’asse adrenomidollare e
ACTH-cortisolo, sono numerosi e concepiti in relazione ai differenti quadri
clinici di stress e alle differenti
situazioni psicologiche, con la frequente necessità di un adattamento
individuale. Generalmente si procede cercando di determinare un allontanamento
dalle fonti di stress, fornire
un’esperienza presente positiva e rasserenante, e agire con varie tecniche per
far mutare l’assetto funzionale dell’organismo (esercizi di respirazione con
rilassamento, metodi derivati dal training
autogeno, tecniche di meditazione, approcci neuromotori, ecc.) procedendo
per gradi, perché un netto contrasto produce a sua volta un aumentato rilascio
di ormoni e neuromediatori centrali di quello stato che deriva dalla reazione
elementare a corto-circuito, innescata negli animali da minacce per la vita o
l’integrità dell’organismo.
Quando lo stato dell’organismo non
configura una condizione particolarmente grave, un metodo che si è rivelato
efficace per ridurre la tensione interiore consiste nell’ascolto di musica
gradita.
Asif e colleghi hanno esaminato gli effetti di brani musicali in Inglese e in
lingua Urdu sui livelli di stress
nell’uomo, usando segnali cerebrali. Lo studio ha prodotto dati di notevole
interesse.
(Asif A. et al., Human stress
classification using EEG signals in response to music tracks. Computers
in Biology and Medicine 107: 182-196, 2019).
La provenienza degli autori è la seguente: Department
of Computer Engineering, University of Engineering and Technology, Taxila (Pakistan);
Department of Software Engineering and Technology, Taxila (Pakistan).
Prima di esporre in breve i
contenuti dello studio di Asif e colleghi, si propone
una ricostruzione delle tappe fondamentali della ricerca sulle basi
neurofunzionali della risposta allo stress, tratta da un nostro recente
articolo:
“Il fisiologo americano Walter Cannon introdusse
per la prima volta il concetto di stress
biologico in una trattazione scientifica nella seconda decade del Novecento,
per indicare l’azione di fattori, eventi o condizioni in grado di superare le
capacità dei meccanismi omeostatici,
rompendo l’equilibrio dinamico necessario, ad esempio, per conservare la
temperatura corporea e i livelli ematici di glucosio entro l’intervallo di
valori fisiologici[1]. Cannon studiò la
risposta dell’organismo allo stress,
quale reazione integrata ed aspecifica in condizioni di emergenza, e la
identificò con il processo alla base del comportamento animale istintivo noto
come fight or flight reaction[2], descrivendo la redistribuzione del flusso
ematico che avviene in questo stato: la riduzione nei distretti cutaneo e
splancnico, contrapposta all’aumento della portata a cuore, cervello, organi di
senso, polmoni e grandi muscoli, a supporto dell’assetto fisiologico che consente
all’animale di reagire efficacemente ad una minaccia per la vita. Perrella
nota, in proposito, come la comparsa nella filogenesi del sistema nervoso
“abbia consentito a singoli individui di una specie di rispondere
individualmente ed immediatamente ad una minaccia per l’incolumità, scegliendo
se eliminare l’origine individuata
con i sensi, attaccandola, o sottrarsi alla circostanza,
fuggendo”[3].
Il
fisiologo americano “rimuoveva la corteccia cerebrale nel gatto e ne studiava
le conseguenze in termini di fisiologia sistemica e di comportamento
dell’animale. In tali condizioni rilevò un aumento delle reazioni di paura a
situazioni potenzialmente minacciose, o semplicemente nuove, accompagnate da
attivazione adrenergica, con aumento della pressione sanguigna, sudorazione, piloerezione ed aumentata secrezione di adrenalina
surrenalica. Definì questa reazione “sham rage” – di solito tradotta nei testi di fisiologia italiani
con “rabbia fittizia”, ma sarebbe più giusto definirla “rabbia artificiale” in
quanto conseguenza di asportazione della corteccia cerebrale – e propose
l’ipotesi che una serie di strutture poste sopra il Mesencefalo fossero
implicate nella genesi delle emozioni; in particolare indicò l’Ipotalamo, il
Talamo, l’Ippocampo ed il Giro del Cingolo”[4].
“Nel corso
dei suoi esperimenti il fisiologo ebbe anche modo di testare l’effetto di
stimoli psichici in grado di evocare risposte affettivo-emotive nell’animale. I
risultati di questa ricerca gli consentirono di dimostrare, per primo, che
diverse condizioni agenti direttamente sulla psiche dell’animale, senza il
condizionamento del dolore fisico, nel provocare rabbia o paura scatenavano
un’identica reazione simpato-adreno-midollare.
Questa osservazione cruciale lo condusse alla formulazione di un principio,
purtroppo spesso trascurato nei decenni successivi[5]: “al pari di una omeostasi organica esiste una
omeostasi psichica la cui perturbazione provoca le stesse modificazioni
periferiche che si osservano quando l’organismo viene sottoposto a stress di natura fisica”[6].
Dieci anni
dopo la pubblicazione della teoria di Cannon, il neuroanatomista Papez ipotizza
un’elaborazione in sequenza delle emozioni da parte di un circuito con punto di
partenza e di arrivo nell’ipotalamo, ed esteso a tutte le strutture del lobo
limbico, ossia il Circuito di Papez[7]. Sicuramente suggestiva, oggi questa ipotesi ci
appare ingenua e infondata. In quello stesso periodo, Kluver
e Bucy stabilirono un rapporto tra memoria ed
emozioni asportando nelle scimmie parti estese del lobo temporale. Queste
scimmie sembravano prive di paura e risposte emozionali, ma non riconoscevano
più oggetti a loro familiari e perfino il cibo[8].
Nel
decennio successivo, McLean, sintetizzando gli studi di Papez
e quelli di Kluver e Bucy,
denominò cervello viscerale il rinencefalo dei mammiferi inferiori; ma,
soprattutto, introdusse l’amigdala,
il setto e la corteccia prefrontale nella descrizione sistematica del cervello
emozionale, adottando nella fisiologia delle emozioni la definizione di lobo limbico[9].
Il medico
ungherese Hans Selye, considerato dai ricercatori del
suo tempo il massimo esperto di effetti dello stress sull’organismo, pubblicò i primi risultati delle sue
ricerche nel 1936 sulla rivista Nature:
definì la risposta dell’intero organismo a fattori o condizioni stressanti sindrome generale di adattamento,
sottolineando la partecipazione globale ad un assetto fisiologico dal
significato di difesa efficace ad adattare l’animale a circostanze minacciose,
estreme o traumatiche. In questa “sindrome” Selye
distingue una iniziale reazione di
allarme da una fase di resistenza
successiva. Il contributo più importante del ricercatore ungherese consiste
nella scoperta dell’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con la
produzione di glucocorticoidi (cortisolo nella specie umana) per azione
dell’ACTH, a sua volta stimolato dall’ipotalamo. Comprendendo le potenzialità
patogene dell’attivazione protratta di questa via neuroendocrina, inizialmente
attivata a fini adattativi, Selye considerò “malattie
dell’adattamento” la maggior parte dei disturbi psichici e psicosomatici.
È
opportuno rilevare che “Selye conferisce al termine stress un nuovo valore semantico,
definendolo come la somma di tutte le modificazioni indotte da ogni impegno
fisico o psicologico in grado di provocare la sindrome generale di adattamento[10]. Quindi, mentre Cannon
identificava lo stress con gli agenti
stressanti (stressors),
per Selye lo stress
era costituito dalla risposta che questi inducono nell’organismo e, in ultima
analisi, dalla stessa sindrome di adattamento. In estrema sintesi, si può dire
che a Cannon dobbiamo la scoperta dell’attivazione
del sistema simpato-adreno-midollare
e a Selye quella dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene”[11].
Tutti gli
studi successivi hanno preso le mosse dalla base fisiologica individuata da Cannon e Selye.
La
concezione attuale è stata così esposta in sintesi: “Oggi definiamo lo stress come uno stato di disarmonia o di
alterata omeostasi che può essere provocato da vari fattori di natura fisica
e/o psichica (agenti stressanti o stressors) e al quale l’organismo reagisce specificamente
attivando una serie di meccanismi fisiologici di natura neuroendocrina (sistema
dello stress) che innescano e/o
modulano una serie di funzioni fisiche e comportamentali (risposte adattative), aventi lo scopo di adattare l’organismo alla
nuova condizione e di ripristinare l’omeostasi iniziale”[12].
Fra i
meccanismi di sistema ritenuti responsabili della patogenesi dei sintomi del
PTSD, quale esito patologico di stati protratti di alterata omeostasi, vi è
quello che implica l’intervento del locus
coeruleus. In sintesi: eventi stressanti o
minacciosi, riconosciuti ed elaborati dalla corteccia cerebrale, raggiungono
l’amigdala, che può essere attivata anche da evocazioni o stimoli elaborati
inconsciamente; l’amigdala rilascia il CRH che attiva la produzione
simpatico-midollare di adrenalina e stimola l’asse ACTH-cortisolo, preparando
l’organismo alla fuga o all’attacco. Se lo stress
perdura o è molto intenso, il cortisolo attiva il locus coeruleus che, mediante la
noradrenalina, stimola l’amigdala a produrre CRH, innescando il circolo vizioso
ritenuto responsabile della patogenesi[13].
Dopo aver
ripercorso le tappe salienti della ricerca sulla fisiologia della risposta allo
stress, è interessante considerare,
sia pure in estrema sintesi, l’evoluzione della concezione in medicina e in
psichiatria della patologia da stress.
Nel 1871,
durante la guerra civile americana, Da Costa descrisse in soldati esposti allo stress del combattimento una sindrome
caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata
frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche.
Il medico americano studiò le manifestazioni cardiovascolari, consistenti
nell’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed
innalzamento della pressione arteriosa, rendendosi conto dell’origine non
cardiologica di questi segni[14]. Da Costa definì questo quadro clinico soldier’s irritable heart (cuore irritabile del soldato) e lo considerò
parte di una sindrome di attivazione dell’intero organismo, alla cui origine
riconobbe lo stato psichico determinato da paura e tensione estreme[15]. Si tratta della prima formulazione nosografica
di un disturbo da stress, denominato
con l’eponimo Da Costa’s
Syndrome[16].
Kraepelin, pioniere della nosografia psichiatrica, descrisse una sindrome da
trauma psichico con il nome di schreckneurose, reso in inglese con fright neurosis, letteralmente “nevrosi da
spavento”[17]. Freud, la cui elaborazione teorica degli
effetti delle esperienze traumatiche esulerebbe dai limiti di questa sintesi,
consultato nel 1915 circa il crescente numero di vittime della tensione e
dell’angoscia causate dall’esperienza della Prima Guerra Mondiale, propose la
diagnosi di Kriegneurose,
ossia “nevrosi di guerra”, attribuendone la causa al conflitto che si determina
fra l’impulso di fuggire e il dovere di combattere. Numerosi autori descrissero
sintomi psichici causati dal trauma bellico, prevalentemente espressi come disturbi
della memoria ed interpretati su base dissociativa: dimenticanza del proprio
nome sul campo di battaglia, amnesia per dati personali ed eventi gravi appena
accaduti, fino a stati stuporosi con amnesia globale. Accanto a tremori
intrattabili ed ansia intensa, altri psichiatri riportarono sintomi simili a
quelli dell’isteria di conversione
della nosografia dell’epoca, ossia paralisi (pseudoparalisi), mutismo e cecità
temporanee[18]. In assenza di fattori eziologici cerebrali
riconoscibili che giustificassero queste manifestazioni cliniche, i fautori di
una visione neurologistica conclusero che il cervello
subisse danni concussivi dalle esplosioni
ravvicinate, e tali danni fossero responsabili dei sintomi. Per questo tali
sindromi furono denominate Shell Shock
o Shock da bombardamento (to shell =
bombardare). Nello stesso periodo, Pierre Janet ipotizzò che condizioni estreme
o eventi traumatici fossero in grado di determinare una scissione della
coscienza tale che la vita mentale potesse avere due processi paralleli
operanti fianco a fianco, ciascuno dei quali poteva essere o meno consapevole
dell’altro. Lo psichiatra francese osservò pazienti che presentavano sintomi
quali vedere “come se fossero in un tunnel” o senza colore, che avevano pause
psichiche o si sentivano come se fossero in un sogno, ovvero manifestazioni che
oggi descriveremmo come dissociazione da stress[19]. Ricordiamo che Janet fornì la prima teoria
della dissociazione, secondo una patogenesi perfettamente coerente con le più
avanzate conoscenze di neurofisiologia dell’epoca.
Lo studio
delle nevrosi di guerra e dello Shell Shock riconosce una causa acuta
alle amnesie sul campo di battaglia, ma analizza anche il perdurare dei
sintomi, spesso considerato un effetto di affaticamento del sistema nervoso.
Infatti, Mott ed altri introducono la categoria
nosografica della Combat Fatigue o affaticamento
da combattimento[20].
Kardiner e Spiegel (1930-38) interpretano i disturbi
presentati a distanza di tempo dai veterani della I Guerra Mondiale come il
“perdurare della rottura delle funzioni egoiche”[21] espresse in una psiconevrosi, negando di fatto
l’esistenza di patologia cronica da stress.
Sargent e Slater (1941) studiano le sindromi amnesiche da guerra; Torrie studia la patologia
psicosomatica da stress. Nel 1945 Grinkel e Spiegel, che avevano introdotto la definizione di Combat Neuroses,
pubblicano un volume che rimarrà per decenni una pietra miliare nello studio
degli effetti psicologici delle esperienze ansiogene e degli eventi traumatici:
Men Under Stress[22]. La focalizzazione sull’eccesso di adrenalina
all’origine di segni e sintomi porta gli autori a suggerire nei casi più gravi
la rimozione chirurgica delle ghiandole surrenaliche.
La prima
descrizione esaustiva di sindrome da
stress cronico si attribuisce ad Eitinger che, in
uno studio condotto dal 1948 al 1965 sui sopravvissuti dei campi di
concentramento nazisti, definisce la Concentration Camp Syndrome[23].
Le
difficoltà nello sviluppo di una nosografia di riferimento per la diagnosi dei
disturbi da stress in assenza di
precisi elementi di patogenesi dei sintomi sono riflesse nel Manuale
Diagnostico e Statistico dell’American Psychiatric Association (DSM)
che, nella prima edizione del 1952, includeva la gross stress reaction – probabilmente sotto
l’influenza della casistica legata agli eventi bellici – mentre nella seconda
edizione del 1968 non riportava più questa diagnosi. Ma le problematiche legate
alla sintomatologia post-traumatica ritornarono di attualità con lo studio dei
reduci dalla guerra del Vietnam. Osservando questi pazienti, Lawrence Kolb descrisse la startle response, consistente nel sussultare per comuni suoni e
rumori ambientali, e la attribuì agli elevati tassi di noradrenalina presenti
nei reduci afflitti da una sintomatologia cronica. In questo periodo sono state
elaborate le principali teorie dello stress:
la residual stress theory,
la stress sensitization
theory e la stress
inoculation theory.
Nel suo
influente lavoro, Charles Figley (1978) sostenne che
lo stress della guerra fosse in grado
di determinare psicopatologia da stress
virtualmente in ogni persona esposta, senza la necessità di una personalità premorbosa[24]. In questa temperie psicopatologica, nel 1980 si
introdusse nel DSM III il PTSD (Post Traumatic Stress Disorder)
quale disturbo indipendente nelle due varietà, acuto e cronico.
Nei primi
anni la diagnosi era posta raramente, anche per la definizione di trauma
inclusa nel “Criterio A”: “Evento al di là del normale spettro dell’esperienza
umana”. Nelle versioni successive si corregge questo limite: “Evento con
minaccia per la vita od altro (evento) significativo accompagnato da estrema
paura, orrore o sconforto”[25].
Una parte
considerevole delle conoscenze cliniche ed epidemiologiche sul PTSD di cui oggi
possiamo disporre si deve agli studi di Richard Mollica, tra i fondatori nel
1981 dell’Harvard Program in Refugee Trauma, e dei gruppi di psichiatri che fanno
capo alla sua scuola. Fondamentale il contributo derivato dallo studio nel più
grande campo di rifugiati cambogiani nel 1988.
Nel 1994
fu introdotto, come parte del DSM IV, l’Acute Stress Disorder (ASD) che, a differenza del PTSD, prevede una
durata della sindrome inferiore a un mese.
Il
riferimento nosografico ha facilitato lo studio degli effetti sull’encefalo
dello stato di attivazione da stress
di lungo periodo nella nostra specie, con il lavoro di Bremner
e colleghi che ha inaugurato un metodo basato sull’osservazione mediante
risonanza magnetica nucleare (RMN), divenuto poi un approccio standard. Il team dello psichiatra americano
confrontò un gruppo di veterani affetti da PTSD con un gruppo di controllo
equivalente, rilevando che le persone affette dal disturbo presentavano in
media un volume dell’ippocampo di destra inferiore dell’8%, con un deficit di
memoria direttamente proporzionale alla perdita di tessuto nervoso ippocampale.
Lo studio, condotto nel 1995, documentò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano”[26].
Riprendiamo, ora, la recensione
dello studio condotto da Asif e colleghi.
L’analisi dei correlati EEG durante
l’ascolto di brani musicali è stata realizzata su 27 volontari, 14 di sesso
maschile e 13 di sesso femminile, di età compresa tra i 20 e i 35 anni, di
madre lingua Urdu.
L’Urdu è una lingua indoeuropea del
gruppo delle indoiraniche (indoarie), ufficiale in Pakistan, in molte regioni
dell’India e nelle Figi, dove è nota come indostano. È parlata da 61 milioni di
nativi e da numerose altre popolazioni, per un totale stimato intorno ai 104
milioni di parlanti. La storia di questo idioma sembra si sia svolta nell’Asia
meridionale, tra il 1200 e il 1800, al tempo del Sultanato di Delhi e
dell’Impero Mogul, e si sia caratterizzata per le
influenze persiane, turche e arabe. Il nome della lingua “Urdu” viene da una
parola di origine turcica che designava l’accampamento imperiale e, per
metonimia, le schiere che da lì provenivano: la parola italiana orda deriva da questo termine. La lingua
Urdu, da un punto di vista fonetico e grammaticale, è pressoché indistinguibile
dall’Hindi, ma rimane distinta nella scrittura perché utilizza segni grafici
arabo-persiani con l’aggiunta di qualche grafema originale che rappresenta
suoni di antica tradizione indiana. Anche il lessico la distingue dall’Hindi,
che ha un 80% di parole derivate dal Sanscrito.
I segnali indicativi di stress sono stati rilevati mediante
registrazione dell’EEG – durante l’ascolto dei brani musicali – usando un MUSE headband
a quattro canali. Ai partecipanti è stato chiesto di annotare la valutazione
soggettiva del proprio livello di stress,
impiegando il collaudato state and trait anxiety questionnaire.
I brani musicali in Inglese sono
stati ripartiti in quattro categorie per genere: 1) rock; 2) metal; 3) electronic; 4) rap. I brani musicali in lingua Urdu
sono stati ripartiti in cinque categorie: 1) famosi; 2) patriottici;
3) melodici; 4) qawali; 5) ghazal. Sono stati estratti
cinque gruppi di elementi dai segnali pre-elaborati
dell’EEG a quattro canali e cinque bande: power
assoluto, power relativo, coerenza,
ritardo di fase e asimmetria di ampiezza; tali elementi sono stati impiegati
dal classificatore per la classificazione dello stress.
Per classificare in due o tre classi
il livello di stress del soggetto
sono stati adoperati 4 algoritmi di classificazione:
1) algoritmo di ottimizzazione minimale
sequenziale;
2) algoritmo del gradiente stocastico
discreto;
3) algoritmo di regressione logistica
(LR);
4) algoritmo del perceptron multistrato.
I ricercatori hanno rilevato che
l’algoritmo LR è il più efficace nell’identificare lo stress, con una precisione del 98,76% (classificazione in due
livelli) e del 95,06% (classificazione in tre livelli).
Per comprendere le differenze nello stress legate al sesso, alla lingua e al
genere musicale ascoltato si è fatto ricorso a un t-test e all’analisi della varianza one-way.
I risultati mostrano con evidenza
che i brani musicali in Inglese si sono rivelati più efficaci nel ridurre lo stress rispetto a tutti quelli in
lingua Urdu. Una reale differenza legata al genere musicale, per entrambe le
lingue, non è stata rilevata. Invece, un’importante differenza è emersa fra i
due sessi: le manifestazioni di stress
per effetto della musica nelle donne del campione erano molto più marcate di
quelle dei coetanei maschi. Tale dato suggerisce una maggiore sensibilità, e
dunque vulnerabilità, allo stress da
percezione acustica nelle donne.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle numerose recensioni di argomento connesso che appaiono
nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella
pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-09 marzo 2019
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data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione
scientifica e culturale non-profit.
[1] I cenni storici e le nozioni
sulla fisiologia dello stress esposti
da qui in avanti sono tratti da G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), Dipartimento di
Neuroscienze, Università Federico II, Napoli 2005.
[2] Resa in italiano con “reazione di attacco o fuga”
(lett.: lotta o fuga).
[3] G. Perrella, op. cit., p. 4.
[4] G. Perrella, op. cit., p. 5. Cfr. W. B. Cannon, The
James-Lange theory of emotions: A critical reappraisal and an alternative
theory. American Journal of Psychology 39, 106-124, 1927.
[5] Mai completamente assimilato
nella cultura generale, questo principio consente di equiparare il malessere
soggettivo (illness) che accompagna le malattie
psicogene a quello della patologia ad etiologia organica.
[6] G. Perrella, op. cit., p. 6. La
citazione di Walter Cannon è ripresa da A. Calogero e
M. C. Serra, Lo Stress, p. 12, Quaderni di Patologia Generale, Piccin, Padova 1999.
[7]
J. W. Papez, A proposed mechanism of emotion. American Medical Association Archives of
Neurology and Psychiatry 38,725-743,
1937.
[8]
H. Kluver & P. C. Bucy,
“Psychic blindness” and other symptoms following bilateral temporal lobectomy
in rhesus monkeys. American Journal of
Psychiatry 119, 352-353, 1937.
Cit. in G. Perrella, op. cit., p. 8.
[9]
P. D. McLean, Psychosomatic disease and the visceral brain. Recent developments
bearing on the Papez Theory of Emotion. Psychosomatic Medicine 11, 338-353, 1949.
[10]
Cfr. A. Calogero e M. C.
Serra, op. cit., p. 13; H. Selye, The general adaptation syndrome and the
diseases adaptation. Journal of Clinical
Endocrinology 6, 117-196,
1946.
[11] G. Perrella, op. cit., p. 11.
[12] G. Perrella, op. cit., p. 11. Si
descrivono una risposta centrale ed una
periferica. La centrale è caratterizzata dall’aumento della vigilanza nello stato
di veglia e dall’allerta, fino all’allarme vero e proprio, con accentuazione
dell’attenzione scopica, perlustrativa ed
esplorativa, associato ad incremento della capacità recettiva con eretismo estesico; inoltre, si ha un miglioramento della memoria
impressiva. La risposta periferica
include le modificazioni fisiologiche neurovegetative che interessano i sistemi
endocrino, respiratorio, cardio-circolatorio, gastroenterico, tegumentale, con
le azioni visceroeffettrici ghiandolari, incluse
quelle interessanti le ghiandole sudoripare (sudorazione adrenergica).
[13] Ricordato anche nella nostra
rubrica “Alfabeta” e citato in
numerose note, è riportato ne Il locus coeruleus
rivisitato in “Note e Notizie”
del 9 aprile 2016.
[14] Cfr. G. Perrella, op. cit., pp.
13-14.
[15]
J. M. Da Costa, On irritable heart: A clinical study of a form of functional
cardiac disorder and its consequences. American
Journal of Medical Science 161, 17-52,
1871.
[16]
J. D. Bremner, Does
Stress Damage The Brain?, p. 71, Norton, New York 2002.
[17] G. Perrella, op. cit., p.14.
[18] G. Perrella, op. cit., p.15.
[19] G. Perrella, op. cit., p.17.
[20]
F. W. Mott, War Neuroses and Shell Shock.
Oxford University Press, London 1919.
[21]
Cit. in Lawrence C. Kolb, Psichiatria Clinica, p. 704, Idelson,
Napoli 1979.
[22]
Grinkel R. R. & Spiegel J. P., Men Under Stress. Blackiston,
Philadelphia 1945.
[23]
G. Perrella, op. cit., p.19.
[24] Charles Figley
cit. in G. Perrella, op. cit., p.26.
[25] G. Perrella, op. cit., p.28.
[26] Note e Notizie
15-9-18 Disfunzioni di circuito nel disturbo post-traumatico da stress.